lunedì, ottobre 18, 2004

Dopo le polemiche su Toni Capuozzo, rileggiamo le sue opinioni dalla puntata di Terra del 3 ottobre 2004

Ritorno a casa

Il ritorno a casa, a volte, è un sollievo amaro. No, non per quello che dichiarano le due Simona. Su questo bisognerebbe essere chiari: hanno il diritto di dire quello che vogliono, ed è persino piacevole sapere che sono tornate a essere quelle di prima, che il sequestro non le ha piegate, non ha cambiato il loro modo di vedere il mondo, o che sono riuscite a sfuggire ai fantasmi aggrappandosi alle vecchie abitudini, come per un riflesso automatico: sono sempre io, sono le stesse di sempre.
Non è questione di gratitudine, o di quel mediocre senso dell’opportunità che spinge persino gli eroi della partita, la domenica, a dire che il merito è di tutta la squadra, a ringraziare il mister e l’assist, e l’importanza del risultato. No, dobbiamo essere contenti che siano così, di nuovo, e ripetere, aggiustandola all’occasione, la vecchia frase: non sono d’accordo con quello che dici, ma mi batterò fino in fondo perché tu abbia il diritto di dirlo.
A volte, quando parliamo, parliamo di cose diverse: il loro Islam non è il nostro Islam, la loro resistenza non è la nostra resistenza, la loro occupazione americana non è la nostra occupazione americana, e perfino le loro donne e i loro bambini non sono le nostre stesse donne e i nostri stessi bambini: quando noi sentiamo la parola Islam ci scappa di pensare a una sacralità della vita individuale che in quel gorgo di passioni si è persa e sarebbe sleale nei loro confronti non ricordarglielo, non imputargli le loro sviste, non pretendere che si assumano le proprie responsabilità, che riscattino se stessi e il loro mondo. Quando loro parlano di resistenza, noi abbiamo in mente Kenneth Bigley in gabbia. Quando loro parlano di occupazione americana noi abbiamo in mente che quel paese va aiutato a farcela da soli, e se gli americani andassero via sarebbe un macello peggiore. Quando loro parlano di donne, noi abbiamo in mente l’umiliazione della donna come un segnale, a tutti, dell’umiliazione dei diritti, delle diversità, della dignità. Quando loro parlano di bambini, noi abbiamo in mente le caramelle e le autobombe. Ma non è a loro che dobbiamo chiedere di essere normali, o speciali, o rimproverare a loro l’affetto e la pena che abbiamo provato per loro, chiedendole di continuare a essere chissà che cosa. Sono state, per poco più di venti giorni, due figlie d’Italia, e ai figli si finisce per perdonare tutto, e non si può chiedere loro di assomigliarci troppo: alla fine, vanno sempre per la loro strada, e dobbiamo volergli bene per quello che sono, non per quello che vorremmo che fossero.
Sono altri, quelli che sbagliano. Sono altri, che sotto i faretti delle telecamere rivelano smagliature etiche che si sciolgono come un trucco precario. La loro organizzazione, ad esempio. Non erano campioni di libertà prima. Avevano ingoiato senza fastidio, e con una buona dose di relativismo morale, tutti gli orrori del regime di Saddam Hussein. Passavano davanti ad Abu Graib e guardavano dall’altra parte. Vedevano gli sfarzi della corte e i miserabili tornaconti dei funzionari internazionali, eppure era solo contro l’embargo che puntavano il dito. Scendevano i gradini di un abisso morale, tacendo, e salivano quelli della nomenclatura: distribuivano visti, e mettevano a tacere la propria coscienza scavando un pozzo per la povera gente, facendo un doposcuola, portando medicine: più o meno, come aprire un pronto soccorso in un lager nazista, infermieri buoni e ciechi e sordomuti. Un patto sordido, su cui l’informazione italiana stendeva un velo, in cambio di visti, o con il solo ammiccamento di un sentire comune: l’odio per l’America, più forte di quello per Saddam, piccolo Saladino delle resistenze. E come si fa, quando il tuo passato è questo a dire, che so: hanno tirato dei colpi di mortaio contro la nostra sede, facciamo tornare a casa le ragazze. Era solo un incidente di percorso, via. E nel concordato amichevole ci sta tutto: dire che le ong restano in Iraq, armiamoci e partite. Dire che il sequestro è anomalo, vuoi vedere che c’è lo zampino dell’America, un compagno resistente non può averlo fatto. Dire molte cose, ma dette tutte da Roma, lascia che in Iraq ci vada Scelli, e ci restino i ventiquattro della Croce Rossa, che non è una organizzazione non governativa, che non è un piccolo partito mascherato di bontà, che non ha ideologie, e solo tante piccole competenze professionali, e buona volontà di gente comune, medici napoletani e analisti milanesi, che votano ognuno per conto loro, e non fanno manifestazioni, o le fanno come singoli, gente senza striscioni e con una sola, banale bandiera, un tricolore così, solo per dire siamo italiani. E’ normale, allora, che alla fine della constatazione amichevole scappi detto, nell’ora della gloria: “Sono libere, adesso torni a casa il contingente italiano”.
Non una parola per gli altri ostaggi, non una parola per il ricordo di nassirja, non una parola per Fabrizio Quattrocchi, non una parola per Enzo Baldoni, non una parola per chi resta in gabbia. C’ è da aver paura di gente che vuol fare il bene e nutre così tanti rancori, e tutta l’umanità di cui sono capaci è di tornare alle parole d’ordine, alla politica, alla trincea. C’è da capire che quegli occhi socchiusi sulle tragedie dei curdi uccisi dai gas, sull’inferno delle prigioni, sui feddayn di Saddam che allora impararono a usare il coltello sul collo della gente, sui massacri degli sciti, quegli occhi hanno imparato a guardare altrove come un mestiere. Non vogliamo fare grandi discorsi, e le storie piccole a volte sono meglio.
C’è un bambino che a scuola, nelle scuole di Saddam raccontò una barzelletta: l’aveva sentita da altri, da qualche adulto. Dunque Saddam decide di liberalizzar ei visti di uscita dal paese, e subito si crea una grande coda. Allora Saddam dice, ci vado anch’io, voglio anch’io il mio visto. Arriva, e tutti se ne vanno. Ma perché, chiede Saddam. Se vai via tu, allora possiamo restare noi, dicono tutti. Non fa molto ridere, ma ha riso una sola volta il bambino che la raccontò: è scomparso per sempre, e i missionari armati di bandiere non hanno avuto modo di aiutarlo. Insomma, prima dei misteri dei venti giorni del sequestro, c’è il mistero di dieci anni di relativismo morale.
Appunto, il sequestro. Che purtroppo non era opera della Cia, né di comodi criminali comuni. Ma della resistenza. Una resistenza sospettosa e pronta al colpo alla nuca. Ma se tu li convinci, e se non ti sfiorano, e se ti chiedono perfino perdono, e ti assolvono, ecco che perfino il ghigno del terrore, del sequestro delle libertà, diventa un sorriso. E si può scrivere sui muri: liberata la pace. E i camionisti turchi, per loro niente pace. E i fantasmi di Quattrocchi e di Baldoni, e degli americani che non destano pietà sono ombre sullo sfondo: qualcosa che assomiglia alla devozione perduta di quei comunisti che finivano davanti ai plotoni di Stalin, e benedicevano il comunismo, e l’abiezione dell’ideologia li portava qualche volta a confessare colpe non commesse, a fare nomi di compagni di sventura, a morire come si accetta un castigo meritato: chi non lo faceva impazziva, e il regime esigeva le confessioni non per dare una morte che sarebbe venuta comunque, ma per dominare i cuori e le anime, prima che i corpi. Volevano ucciderle, un fuoco amico perché le spie vanno uccise.
I camionisti turchi, gente che non va all’estero per salvare il mondo ma per dare da mangiare a una famiglia, gente senza faretti di telecamere e che per bandiera hanno pance da autisti e pantaloni sporchi di diesel, sono stati uccisi nel numero di trenta, finora, senza constatazione amichevole: e senza pietà, non gli hanno regalato neanche una paginetta del corano, né dolci, né scuse. E gli altri in mano ai boia, questi arcangeli vendicatori che usano il velo per mascherarsi, razza di uomini coraggiosi, coltelli spregevoli e vigliacchi. Ma quelli sono altri incidenti, che non fanno statistica, o forse collaboravano con l’occupazione, anche la pietà ha i suoi confini. I sequestratori non volevano soldi, volevano giustizia, a modo loro. E siccome gli sfuggiva che l’argomento riscatto è un dolcetto per le polemiche italiane, si sono arrabbiati con i mediatori, quando la storia è saltata fuori, sospettando un’avidità che stonava con la severità del loro tribunale da inquisizione, con la loro feroce purezza, chiedono scusa anche se solo ti sfiorano una gamba.
Tant’è che hanno gestito a modo loro la liberazione, firmandola con la consegna di una pistola, perché i mediatori hanno portafogli, non pistole. Portafogli vuoti, perché la resistenza non si vende, e pistole scariche, perché si uccidono solo le spie, o solo gli ostaggi cattivi, o solo nepalesi e turchi, che non commuovono neanche il cappellano del quartiere.
I segreti non sono nel sequestro, che è perfino una storia piccola, con qualche casualità, e troppi padri nella vittoria, quando la sconfitta di Baldoni non ebbe neppure una madre. I segreti stanno dopo, in quel mondo che appare semplice, allo sguardo abbagliato di chi solleva il velo, ma anche allo sguardo storto di chi il velo non lo ha mai messo, tocca sempre agli altri, o alle altre.
Il segreto è una parola d’ordine, una giaculatoria di appartenza, come quelle frasi che sono il cemento delle sette, americane oppure orientali, qui non importa. Dice la formuletta: terrorismo no, resistenza sì. Nel bollettino di guerra forse vuol dire autobomba contro il convoglio americano, ok, il prezzo è giusto, autobomba contro le reclute in fila, insomma vediamo, autobomba contro i bambini e le caramelle, errore, forse succede, sequestro di Quattrocchi, bèh se l’erano cercata, sequestro di civili: se sei innocente ti liberano, certo il sequestro di civili non va.
Ora se uno pensa che i terroristi siano quattro gatti, o Zarkawi e altri tre, si sbaglia. Il terrore gode simpatie, in Iraq. Appoggi, complicità. Il terrorismo paga, funziona, vince le sue battaglie. Tu uccidi gli interpreti, e io mi guardo bene dal fare l’interprete. Un solo esempio storico, per i più giovani, tanto per capire come il terrorismo funzioni, e come diventi una maledizione, se lo abbracci come una tattica usa e getta, e invece torna fuori perché il terrorismo è una metastasi che corrompe anche le ragioni comprensibili, che si ribella a essere un mezzo, che diventa un fine, e fine a se stesso. Come credete voi che Arafat sia arrivato al Nobel per la pace ? I palestinesi, dimenticati dal mondo, scelsero il terrorismo, quando voi non eravate neanche nati. Uccisero atleti alle olimpiadi, dirottarono aerei, uno dopo l’altro. E imposero il loro problema, vero e reale, al mondo.
Diventarono qualcos’altro: un popolo in esilio a casa sua, una causa rispettabile, palchi e sedie ai convegni, e una rivolta, ragazzini con le pietre contro i blindati, che suscitava la tenerezza che si prova per i ragazzi della via Pal – ma anche quello è un libro d’altri tempi. E dunque, Nobel, e kefia. Poi è tornato fuori, il terrorismo, come un fiume carsico, a dannare e sporcare le ragioni dei palestinesi, perché le condanne del sangue nei bar dei ragazzi, nelle discoteche di Israele, erano condanne di opportunità, e relative: e i nostri bambini, e i nostri profughi, e l’occupazione ? Se uno pensa che le radici del terrorismo siano solo nelle cause, nella povertà o nell’assenza di diritti, e che questo in qualche modo lo legittimi, salvo incidenti di percorso disdicevoli, allora uno ha il velo davanti agli occhi, e sussurra, schizzinoso, terrorismo no, resistenza sì, condannando, con semplicità morale anche qualunque resistenza a perdersi. Perché non si rende conto che una volta che hai sacrificato al fine, nobile e bello, ogni mezzo possibile, hai venduto l’anima, sei perso. Se hai ucciso un camionista qualunque oggi, quale mondo migliore costruirai domani ? Se fai strage di ragazzini con la mano tesa alle caramelle, che scuole farai nel mondo migliore ? Allora accettare la distinzione tra terrorismo e resistenza è un suicidio: la resistenza che accetta il terrorismo è morta, o assassina, che fa lo stesso. Ma se si chiudono gli occhi sulle barbarie di Saddam, si possono anche chiudere gli occhi su altre barbarie, e rifugiarsi nelle certezze sgranate come un rosario. Un rosario arrogante, che non si fa sgranare dalle incertezze della vita. Sono altri, gli uomini semplici, che guardano il mondo e si imbattono nella vita e invecchiano e cambiano, senza docilità, se riescono a invecchiare. C’è l’11 settembre ? Il mio mondo, la mia vita è cambiata. Sono gli Agliana e gli Stefio e i Cupertino che hanno la vita rovesciata, sono gli uomini soli e senza risposte, e con troppi perché,. Loro no, hanno la risposta pronta, lo schemino che spiega il mondo. E spiega la storia e viviseziona i ricordi secondo memoria di comodo, doppie morali, e verità unica. L’Islam delle anime belle, che assomiglia a un esotico the nel deserto, non esisteva quando a morire erano i musulmani di Sarajevo. Quante fiaccolate avete visto ? Chiedete loro, alle anime belle come si chiamavano quei volontari bresciani uccisi per portare medicine in Bosnia, o come si chiamava quel pacifista che andò a morire su un ponte della Milijacka. Non lo sanno, perché, oscurate dal velo, le anime belle avevano scambiato gli assedianti di Sarajevo per la sinistra possibile. Erano sinistri, ma in un altro senso. Chiedete a loro cos’era il ponte per Sarajevo, un ponte in minuscolo, e chiedete quanti uomini d’equipaggio aveva l’aereo che portava coperte a Sarajevo, e venne abbattuto. No, quelli erano morti senza bandiera, solo una divisa e un senso del dovere, i morti da ricordare sono Carlo Giuliani e Ilaria Alpi, già la Cutuli serve poco alla causa. Chiedete a loro, ai santonid ei dibattiti e degli striscioni, perché non stanno in Iraq, adesso. Perché gli amputati da autobomba non hanno diritto a una protesi, i secondi passi sono assicurati solo agli amputati dallo zio Sam. Chiedete non alle due Simona, povere figlie nostre, che hanno diritto di dire quello che vogliono, e persino di diventare europarlamentari, alla prossima puntata, chiedetelo ai confratelli perché non vanno adesso a fare gli scudi umani non diciamo nella cabina dei camionisti turchi, ma a Falluja.
Chiedete a loro perché le idee non cambiano, perché se un amico ti tradisce, o uno che conoscevi si rivela diverso tutto resta uguale, nel regno confortante delle ideologia senza dubbi, delle sicumere a risposta pronta: l’occupazione americana, magari scritta con il kappa. Chiedetegli il nome non dico dei diciassette ragazzi e padri di Nassirya, che vestivano una divisa, che sono andati a morire con il senso del dovere con cui a Genova si erano puliti dagli sputi dell’Italia civile che non voleva il G8, chiedetegli il nome dei due civili morti a Nassirya da giornalisti. Per loro niente manifesti.
Per loro nessuna indignazione.
Fa indignare Terra!, dice l’onorevole vellutato che attacchiamo l’Islam. Non gli passa per la testa che chiedere all’islam di ribellarsi al silenzio, di rispettare, oltre che se stesso, anche noi, è un segno di lealtà, è aiutarli a uscire dalle ambiguità, dalle frustrazioni, dal totalitarismo religioso, dall’ipocrisia che piace tanto ai santini ecumenici. Cari fratelli interreligiosi, che avete pregato con Tareq Aziz, vogliamo spenderla un’ultima parola di conforto, anche per Kenneth Bigley, un’estrema unzione coraggiosa. E voi, generosi e confusi scudi umani, vogliamo andare adesso in Iraq, e offrire i petti sulle case di Falluja, non chiediamo che si mescolino alle reclute in coda ? Non sono domande retoriche, perché le rivolgiamo anche a noi stessi le domande scomode.
Chiediamo a noi stessi, noi che non abbiamo verità in tasca, noi che non ci nascondiamo, macchè imbarazzo, ma sdegno per ogni vittima innocente di falluja, noi che non accettiamo che la caccia a Zarkawi abbia danni collaterali, noi che siamo tormentati dai dubbi, ci chiediamo che cosa fare, e non abbiamo risposte pronte, solo l’orgoglio di avere verità confuse, ma anche una morale sola. Noi anime semplici e senza arroganza, che non abbiamo bisogno di eroi e di eroine, noi che non smaniamo per fare del bene, né per andare in Iraq, noi che non inganniamo la generosità dei giovani, noi che non aspiriamo a nessun seggio e a nessun governo del paese, noi che ci annoiamo a qualunque chiarificazione nella sinistra e a ogni dibattito nella destra, noi che ci auguriamo sì che i nostri coetanei di nassirja tornino tutti, dal primo all’ultimo a casa, ma con la soddisfazione di un lavoro compiuto, non con la vergogna di essere stati complici di chissà cosa, noi proviamo solo a immaginare, come se fosse un videoclip, come se fosse una pubblicità, che in una piazza di Bagdad, in un tempo futuro che sa di passato, proviamo a immaginare un vecchio uomo che parla alla folla, iracheni qualunque, che dice che ognuno ha diritto di pensarla a modo suo, e ci si può contare nel voto, e le elezioni sono un modo leale di dirimere le questioni, e di rispettarsi l’un l’altro, chi ama il velo e chi se ne infastidisce, e d’altronde, che altro si può fare, non c’è un’altra scelta. Sì, è un’immagine scippata o sequestrata alla pubblicità, sempre meglio che appropriarsi della parola resistenza per mettere una medaglia al petto dei nazisti dei giorni nostri, Dio è con noi, gli ebrei e i capitalisti di Wall Street governano il mondo, la purezza del velo e i versetti del Corano valgono adesso come gli occhi azzurri e i capelli biondi, e la figlia di un camionista turco sta scrivendo un suo diario che non leggeremo mai, noi siamo stanchi di parole d’ordine e non diremo ora e sempre resistenza, diremo solo siamo a casa, in questa casa disordinata e comune delle due Simona, di Agliana e Cupertino e Stefio. Una casa dalle stanze vuote: i diciannove di Nassirya, , le stanze degli appuntati e dei marescialli, e dei tenenti, ci immaginiamo un cappello sul cassettone, una medaglia e un diploma sul muro, la stanza di Enzo Baldoni che ci piace pensare colorata e innocente, la stanza della casa che Fabrizio Quattrocchi non riuscì a comprare. Lasciamole chiuse, quelle stanze, spegniamo i riflettori dei nostri inviati davanti alle case delle brave ragazze, impariamo il rispetto del silenzio, nelle nostre case con troppi vuoti.
All’Iraq nessuna parola d’ordine, solo l’ineffabile ciao da cartolina, da gita domenicale o da fine tappa: ciao ai 24 della crocerossa, ciao ai ragazzi e alle ragazze di Nassirya, non fate caso a quel che si dice qui, continuate tranquilli a dare una mano a quel paese senza fortuna e poi tornate in questo nostro paese senza silenzio.

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